Alberto
Portalupi
lunedì 4 febbraio 2008
Alberto Portalupi, magentino, quasi sessant’anni portati bene. Bè! Diciamo portati e basta. Dopo Aquilotto e Lambretta lascia le due ruote per riprenderle a 38 anni, partendo da una Kawasaki z400 bicilindrica. Da allora non è più sceso e non ha mai cambiato marca. Usa la moto tutti i giorni sia per lavoro sia per diletto.
La preziosa
La sognavo da quando era stata presentata. Era la mia moto. Fantastica! Forme abbondanti molto protettive su un telaio solido e con un motore che prometteva emozioni a non finire. La Kawa ZX-10 (Tomcat per i francesi) doveva essere mia.
All’epoca, fine anni Ottanta, giravo con una Kawa GPX 750, bella, molto bella, quasi leggera e quasi imprendibile; ma anche comprata usata e che quindi non sentivo davvero mia. E smaniavo per la sorella cicciona.
E nella mia mente, contorta come quella della maggior parte di chi perde la testa per le moto più che per le donne, eccomi a ricostruire lo strano percorso che prima mi ha portato fino a lei e poi ad abbandonarla.
Una domenica del 1988, carico mia figlia (figurati se mi mollava: 4 anni, ma già da un anno aveva il suo cinquantino da cross, su cui la mettevo io perché non toccava terra) e mi aggrego agli amici del «Moto Club Inverunese» per raggiungere Seveso, sede di un raduno nazionale. Del viaggio e del raduno c’è poco da dire: abbastanza vicino a casa, strade statali regolari, semafori, trafila per l’iscrizione, ricordino, panino ecc. L’unica novità è che per la prima volta da quando frequento i raduni compare anche il parroco a benedire le moto.
La svolta avviene al ritorno. Precedo il gruppo (di solito faccio la “scopa”, cioè l’ultimo della fila che controlla che nessuno abbia problemi, cosa che a volte succede visto che nel gruppo ci sono anche pezzi d’antiquariato o quasi), perché devo far benzina (all’epoca non era insolito trovare distributori aperti di domenica). Ecco un distributore API, pensavo non ne esistessero più, ma qui c’è. Mi fermo, pieno, riparto e mi rimetto in posizione “scopa” rispetto al gruppo. Dopo una decina di kilometri la moto va a tre, poi a due e sudando freddo arrivo a casa. Benzina allungata con acqua, penso.
Il giorno dopo porto la moto dall’amico concessionario e il verdetto è: acqua nella benzina, depositi carboniosi che ti hanno fottuto le fasce elastiche e rigato i pistoni. Quindi, cambiare.
Ok, rifammi il motore! Lascio la moto e non mi arrabbio nemmeno: non riuscivo a sentirla mia e ora ancora di meno. Probabilmente si meritava di più, mi aveva accompagnato per quasi 70 000 kilometri.
Moto riparata, ritirata e i quattro pistoni rigati a distanza di 18 anni li uso ancora come posacenere (molto scomodi, non lo consiglio).
Usavo la moto tutti i giorni (anche ora) estate, inverno, pioggia ghiaccio e neve non mi hanno mai fermato. Ma quella moto, prima “sverginata” da un altro, poi violentata da un benzinaio, infine toccata dal meccanico nelle sue parti più intime, la sentivo sempre meno “mia”.
Così a metà del 1989, quando hanno annunciato che la sorella formosa usciva di produzione, ho scoperto di potermela permettere (in effetti ho goduto di un notevole sconto). Ho venduto la GPX a un’amica di Modena a un prezzo quasi politico: siccome il concessionario non teneva conto che la moto era perfetta e con motore nuovo, lui guardava solo l’anno di immatricolazione, per gli stessi soldi ho preferito darla a chi conoscevo. Ero sicuro, come infatti è accaduto, che avrei ricevuto solo ringraziamenti e non lamentele.
Finalmente la ZX-10 è arrivata nel mio garage, rossa e bianca, panciuta, lucida, con un occhio enorme e le frecce incastonate nelle loro pinne. Docilissima nei comandi, frizione idraulica, cruscotto con luci ammiccanti, contagiri enorme. Bella, proprio bella! Da quanto tempo desideravo accarezzarla, aprire il gas, tentare le pieghe (anche se un frigorifero piega meglio di me).
La domenica, subito al raduno di Casalmaggiore, sempre con il moto club. Sensazione fantastica. Che moto! La più bella che abbia mai avuto. Che rapidità la lancetta del contagiri, sembra che i 360 gradi non le bastino; che brutto quando entra il limitatore, sembra soffrire. Decido di non tirarla mai più fino al fuorigiri (è anche in rodaggio, me ne devo ricordare).
Al ritorno chi guida il gruppo (in tutto una ventina, tutte giapponesi abbastanza recenti tranne un Laverdone da amatore) decide passare dall’Oltrepo e arriviamo al raccordo tra Pavia e Bereguardo. Chi ha percorso questo raccordo in moto si sarà reso conto che è impossibile andare piano: soprattutto in un’epoca in cui gli autovelox erano di là da venire. Insomma, non si sa chi ha cominciato, ma la velocità di colpo è salita e ha continuato a salire. Ho visto la lancetta del contakilometri oltre il fondo scala (che indicava 300) e mi è arrivata sulla spalla la guarnizione di gomma del cupolino di una Suzuki che mi precedeva e che stavo raggiungendo.
Dolore feroce, ho mollato il gas e mi sono rialzato, così mi sono beccato anche la guarnizione del cupolino di una CBR 1000 in pieno petto.
Però, che sensazione! Sì, avevo trovato la mia moto. Da allora ho cominciato a fare qualcosa che con le altre moto non avevo mai fatto: le parlavo, l’accarezzavo, la pulivo anche quando non serviva; era sempre più bella, più formosa, più mia.
In famiglia, vedendomi dedicare tutte queste attenzioni alla moto, hanno cominciato a sfottermi. Non mi avevano mai visto lavare la moto e poi mettermi a pulirla con il glassex (provate, l’ho imparato a Monza, funziona). Così la mia ZX-10 è stata ribattezzata “la preziosa”, prima da mio figlio e poi da tutti gli altri.
E “la preziosa” me la stavo proprio godendo, in un mese ero arrivato a 4932,4 kilometri. E lì è rimasta per tre anni.
Sì. Ho avuto una crisi epilettica (così dicono, ma nessuno ne è sicuro anche adesso) e mi hanno fermato. Non fare questo, non fare quello, per esempio non fare più il bagno nella vasca, usa la doccia ecc. Ma soprattutto non andare in moto! Ecchecazzo! Ora che ho trovato la mia moto…
Ho impiegato tre anni a convincere tutti che quel che avevo avuto era una crisi da stress e non una crisi epilettica. E, infatti, dopo tre anni spesi nell’inutile ricerca di un focolaio epilettico, mi hanno detto: ok, non hai avuto nulla di serio, torna a fare quello che vuoi. Avrei strozzato tutti: mi avevano rubato tre anni di moto.
Ma in quei tre anni “la preziosa” non l’avevo abbandonata. Tutte le sere tornando dal lavoro facevo un salto in garage a parlarle, a farle promesse di giri interminabili, di corse su strade piene di curve. La facevo sognare. Non doveva dimenticare di essere La mia moto. Sabato e domenica, per la felicità dei vicini, le facevo sentire il rombo del suo motore, due metri fuori dal garage. E in famiglia la ZX-10 diventava sempre di più «la preziosa», ma detto con un tono diverso, non più per sfottere. E anche per me dire “scendo un attimo dalla preziosa” era diventato naturale.
Quanta strada abbiamo fatto. Quanto freddo. Quanta acqua. Mi ha portato dappertutto e senza mai un problema. Sì l’amavo quella moto!
Il vostro Giovanni Maria l’ha conosciuta, forse me l’ha anche accarezzata di nascosto (il porco!). Non si poteva resisterle. Chiedetegli quanto era sexy!
Non l’ho mai prestata a nessuno, tranne a Monica, un’amica che correva nel campionato italiano femminile, e solo per un giro intorno all’isolato. Di lei mi fidavo, era un pilota; ma quando ha svoltato l’angolo sono andato in ansia finché non è ricomparsa. Da allora non l’ho mai più prestata. Quello mi è sembrato un tradimento.
Poi… è arrivato il giorno in cui mi sono dovuto separare da lei. Ormai aveva 100 mila km. Era ancora bellissima. Ma girare a Milano era diventato un problema. Troppo traffico, troppi autovelox, troppi vigili, troppe norme antinquinamento.
Dovevo decidermi a lasciarla per un’altra. Ma non me la sentivo di farla abbattere. Mi aveva dato troppo.
I concessionari l’avrebbero demolita e non se lo meritava. Così sinuosa nelle forme, così dolce e grintosa allo stesso tempo. Così perfetta. Ma tenere due moto non me lo potevo permettere.
Ho trovato un amico e l’ho data a lui. Mi ha giurato di trattarla bene e ogni tanto di farmela provare. Non era un motociclista. Ho chiesto alla “preziosa” di aiutarlo a diventare tale. E nel 2003 l’ho lasciata andare.
Ora ho una Kawa ZX9R, leggera, potente quanto basta per un sessantenne. In famiglia la chiamano “la moto”. Anch’io la chiamo “la moto”. Non le parlo, non la coccolo. L’ho comprata perché faccia il suo dovere di moto. E da lei non voglio altro. Anche lei l’ho comprata nuova (quando è uscita di produzione, naturalmente): dovrei sentirla mia. Dovrei esserne geloso. Dovrei lavarla. Non mi va. Le faccio i tagliandi, le dò olio e benzina, le sostituisco le lampadine: in cambio lei deve fare la moto, e basta.
Quando usciamo in gruppo e mi propongono di scambiare le moto non dico mai di no. Non mi interessa. Una moto vale l’altra.
Ma quando sotto casa arriva “la preziosa”, corre tutta la famiglia. Non dicono «guarda che è arrivato Paolo», dicono «è arrivata la preziosa» e corrono alla finestra a guardare giù in strada. E lei è sempre bella, formosa e dolce. E ammiccante.
Ora è arrivata a 140 000 km e non ha intenzione di fermarsi. A Paolo sono sempre io a proporre lo scambio moto. E lui accetta sempre. È un amico.
Ha promesso che un giorno me la restituirà. E so che avverrà. Quando non dovrò più girare per Milano tutti i giorni e non mi servirà più una moto che faccia solo la moto, proporrò a Paolo uno scambio moto. Definitivo.
Ah! Dimenticavo! Paolo e i suoi continuano a chiamarla “la preziosa”.