Sergio Schoepflin da tanti anni, troppi, penalista, avvocato in Firenze. 

Motociclista mai nato, ma in embrione fino da quando suo padre lo scorrazzava sulla BMW o sulla Morini.

la rassicurante presenza del babbo che mi

diceva «Tienti forte perché ora si corre… No, non ti piegare da quella parte… Attento, ci sono le buche… Ora vado più forte…».

Ricordo i pini (chissà perché gli unici alberi che ricordo sono i pini) che mi scorrevano veloci lungo la strada.

Ricordo quella musica costante e potente che saliva dal motore, un inno alla libertà e all’avventura.

Ricordo quel gregge di pecore che si parò davanti alla motocicletta, che frenò dolcemente con la voce del motore trasformata in un borbottio impaziente.

Ricordo il volto di mia madre che ci aspettava alla finestra e si rasserenava al nostro arrivo.

Ricordo la mia delusione quando il babbo diceva «Oggi si prende l’auto perché è tempaccio».

Anche la mamma veniva con noi e stava dietro a mio padre e non smetteva mai di dire «Tebaldo vai più piano… c’è il bambino… attento, non sorpassare… ma perché non abbiamo preso l’auto?».

Cominciammo ad usare sempre meno la moto ed io cominciai a soffrire il mal d’auto. Poi mio padre prese la passione per la Lancia, ma usava ancora la moto per andare in ufficio o per fare qualche gita con gli amici. Io preferivo andare a qualche festicciola con i compagni (e soprattutto con le compagne) di classe.

Avevo diciassette anni quando mio padre morì, proprio quando cominciavo a guardare la moto con interesse e timidamente allungavo la mano per carezzare la sella di morbida pelle. Il trauma per la perdita di mio padre fu tale che mi disinteressai completamente alla moto, poi presi la patente, la mamma mi comprò l’auto appena compiuti i diciotto anni, ma nei recessi del mio animo, il sogno di cavalcare una motocicletta è rimasto indelebile.

Questo desiderio è balzato fuori prepotente per “colpa” di un  carissimo amico e dei suoi simpatici compagni, ma era troppo tardi per realizzarlo.

Questi valorosi Cavalieri, incontrati intorno ad una tavola rotonda durante le numerose e laute cene, mi hanno insegnato tante cose sulla motocicletta, ma non cose tecniche come i giri del motore o come vanno prese le curve, ma le sensazioni del viaggiare in moto, che, poi, in sogno rielaboro e faccio mie.

Li ho visti a cavallo delle loro moto, calarsi la celata del casco, coperti dall’armatura in Kevlar e Cordura, partire tra le brume dell’impietoso tempo austriaco e dileguarsi nel turbinio della pioggia battente, quasi partissero alla ricerca del Sacro Graal.

Forse proprio questo cercano i miei amici sui loro  cavalli di rombante acciaio: il loro Graal, che pochi sanno dove e come cercare, e quasi impossibile da trovare.

Li ho visti, li ho visti arrivare tra nuvole di polvere, tra prati verdi, tra le scoscese rocce delle montagne, col sole, col vento, con la pioggia che rende lucidi i loro carapaci.

Li ho visti apparire dalla nebbia col loro occhio giallo, e nella nebbia li ho visti sparire, minuscoli punti rossi sempre più sbiaditi.

Li ho seguiti con la mente ed ho visto l’erba piegarsi al loro passaggio, ho sentito la pioggia battere sulla visiera dell’elmo, ho sentito le ruote mordere l’asfalto, frangere l’acqua, seguiti dall’arcobaleno.