Sergio
Schoepflin
domenica 30 dicembre 2007
Sogno di un motociclista mai nato
Ero nella soffitta della casa di mia madre. Dopo numerosi anni dalla scomparsa di mio padre, morto troppo giovane, avevo trovato il coraggio di rovistare tra le sue cose: fasci di canne da pesca, abiti da caccia e da pesca, attrezzi vari ammucchiati alla rinfusa tra festoni di ragnatele.
Cercavo, cercavo non sapevo cosa tra quei cimeli vecchi di decenni, commosso dai ricordi che, nonostante il tempo trascorso mi saltavano alla memoria.
Qualcosa luccicava tra tutti quegli oggetti. Mi faccio posto e mi appare un faro cromato, scosto ancora i vecchi panni ed improvvisamente emerge una vecchia, bellissima motocicletta: una DKW nera. La libero dal ciarpame che la avvolge e penso: ecco dove l’aveva nascosta!
Febbrilmente con uno straccio la ripulisco e la moto comincia a brillare, le cromature, la vernice lucida, le ruote sgonfie ma ancora buone.
Sono nell’officina del meccanico vicino a casa mia. La motocicletta ha il motore acceso. Un rombo sordo, pieno, ronfante, mi riempie le orecchie e mi esalta.
Salgo sulla moto, do gas, la moto parte, sono in sella e sento il vento che mi scompiglia i capelli. Penso: forse ci vorrà un casco, ma la gioia di muovermi su quel mezzo potente e nello stesso tempo tranquillo, mi fa subito dimenticare questo piccolo particolare. Giro per le strade familiari nei dintorni di casa, lentamente. Arrivo al culmine del piacere e… mi sveglio nel mio letto. Non è giusto! Voglio continuare a sognare in questo sogno impossibile e ricorrente.
Ho sempre desiderato guidare una moto ma non l’ho mai fatto, non so guidare una moto ed ora è troppo tardi per imparare, ma questo desiderio riaffiora continuamente nei miei sogni e nel mio subconscio.
Una sola volta ho guidato un mezzo a due ruote, un ciclomotore: è stato un disastro. Ero in vacanza in una remota isola greca, Karpatos, e gli unici mezzi a disposizione dei turisti erano i taxi e i ciclomotori dati in affitto. Volli provare a salire su un ciclomotore, credevo di avere imparato dai consigli che mi dava Rolando, esperto ciclomotorista, ma, ahimè, non avevo capito proprio nulla. Quel trespolo aveva una vita propria e andò dove voleva lui… diritto in un grosso cumulo di calcina fresca vicino ad una casa in costruzione… Disastro!
Da quella lontana estate del 1985 non ho avuto più coraggio di cavalcare le due ruote, se non qualche bicicletta ed anche in quel caso con successo assai discutibile.
Allora, continuo a sognare la DKW di mio padre. Lui era un grande motociclista: BMW, DKW, moto Morini ed altre che non ricordo (ancora le giapponesi non esistevano). Ricordo che mi faceva sedere davanti a lui sul serbatoio e via… Mi sembrava di volare col vento tra i capelli e
Sergio Schoepflin da tanti anni, troppi, penalista, avvocato in Firenze.
Motociclista mai nato, ma in embrione fino da quando suo padre lo scorrazzava sulla BMW o sulla Morini.
la rassicurante presenza del babbo che mi
diceva «Tienti forte perché ora si corre… No, non ti piegare da quella parte… Attento, ci sono le buche… Ora vado più forte…».
Ricordo i pini (chissà perché gli unici alberi che ricordo sono i pini) che mi scorrevano veloci lungo la strada.
Ricordo quella musica costante e potente che saliva dal motore, un inno alla libertà e all’avventura.
Ricordo quel gregge di pecore che si parò davanti alla motocicletta, che frenò dolcemente con la voce del motore trasformata in un borbottio impaziente.
Ricordo il volto di mia madre che ci aspettava alla finestra e si rasserenava al nostro arrivo.
Ricordo la mia delusione quando il babbo diceva «Oggi si prende l’auto perché è tempaccio».
Anche la mamma veniva con noi e stava dietro a mio padre e non smetteva mai di dire «Tebaldo vai più piano… c’è il bambino… attento, non sorpassare… ma perché non abbiamo preso l’auto?».
Cominciammo ad usare sempre meno la moto ed io cominciai a soffrire il mal d’auto. Poi mio padre prese la passione per la Lancia, ma usava ancora la moto per andare in ufficio o per fare qualche gita con gli amici. Io preferivo andare a qualche festicciola con i compagni (e soprattutto con le compagne) di classe.
Avevo diciassette anni quando mio padre morì, proprio quando cominciavo a guardare la moto con interesse e timidamente allungavo la mano per carezzare la sella di morbida pelle. Il trauma per la perdita di mio padre fu tale che mi disinteressai completamente alla moto, poi presi la patente, la mamma mi comprò l’auto appena compiuti i diciotto anni, ma nei recessi del mio animo, il sogno di cavalcare una motocicletta è rimasto indelebile.
Questo desiderio è balzato fuori prepotente per “colpa” di un carissimo amico e dei suoi simpatici compagni, ma era troppo tardi per realizzarlo.
Questi valorosi Cavalieri, incontrati intorno ad una tavola rotonda durante le numerose e laute cene, mi hanno insegnato tante cose sulla motocicletta, ma non cose tecniche come i giri del motore o come vanno prese le curve, ma le sensazioni del viaggiare in moto, che, poi, in sogno rielaboro e faccio mie.
Li ho visti a cavallo delle loro moto, calarsi la celata del casco, coperti dall’armatura in Kevlar e Cordura, partire tra le brume dell’impietoso tempo austriaco e dileguarsi nel turbinio della pioggia battente, quasi partissero alla ricerca del Sacro Graal.
Forse proprio questo cercano i miei amici sui loro cavalli di rombante acciaio: il loro Graal, che pochi sanno dove e come cercare, e quasi impossibile da trovare.
Li ho visti, li ho visti arrivare tra nuvole di polvere, tra prati verdi, tra le scoscese rocce delle montagne, col sole, col vento, con la pioggia che rende lucidi i loro carapaci.
Li ho visti apparire dalla nebbia col loro occhio giallo, e nella nebbia li ho visti sparire, minuscoli punti rossi sempre più sbiaditi.
Li ho seguiti con la mente ed ho visto l’erba piegarsi al loro passaggio, ho sentito la pioggia battere sulla visiera dell’elmo, ho sentito le ruote mordere l’asfalto, frangere l’acqua, seguiti dall’arcobaleno.