In motocicletta fino a Bucarest (seconda puntata)
mercoledì 16 aprile 2008
Seconda puntata
La strada era deserta a eccezione di una moto con sidecar di costruzione sovietica. Per uno storico dell’arte e motociclista, nessun’altra scena avrebbe potuto apparire più romantica. Quel giorno scalammo i picchi Carpatici, ma non trovammo né cibo né rifugi per la notte. I pochi ristoranti e alberghi avevano le luci spente e apparivano disabitati. A rendere più sinistra l’atmosfera, un paio di gendarmi armati di AK47s (fucile mitragliatore di fabbricazione sovietica, n.d.r.) apparivano a intervalli regolari fra i pini.
Indubbiamente era in corso un’esercitazione notturna.
Esausti, piantammo la tenda su uno spiazzo di neve ammucchiata, accendemmo il fornello da campo e mangiammo il peggior cibo dell’intero viaggio: una porzione di quegli spaghetti, tirati su con le dita perché nessuno dei due si era rammentato di portare un cucchiaio. Senza dubbio eravamo in una zona da orsi e mi ricordai una regola da autostoppista che voleva che il cibo fosse tenuto appeso a un albero: la pentola degli spaghetti fu fissata come una decorazione natalizia.
Gli orsi non ne furono tentati.
Fu nei sobborghi di Bucarest che incontrammo i banditi. Eravamo fermi, consultando la mappa della città e cercando di capire dove fossimo, quando il guidatore di una vecchia e mal ridotta berlina Bmw, procedendo in senso opposto al nostro, ci vide e, invertendo la marcia con il freno a mano, ci investì di frammenti d’asfalto fermandosi proprio di fronte a noi.
L’uomo accanto al pilota ci disse, nel modo più ambiguo, di seguirli. Ci disimpegnammo e decidemmo di cercare il nostro contatto: l’uomo della Reuters.
Chiedemmo a un tassista in quale direzione dovessimo dirigerci per quell’indirizzo; lui insistette per guidarci là, senza voler essere pagato. Come ci trovammo di fronte alla sua residenza, accanto all’Ambasciata egiziana, non lavati, non rasati, odoranti d’orso e di spaghetti al sugo, prendemmo in considerazione le nostre reali possibilità di essere ammessi.
Ma Peter, il boss della Reuters, era un New Zelander poco formale e lui stesso vecchio motociclista. Ci invitò a usare la doccia, condividere la cena alla sua tavola e ci offrì di dormire lì per quanto tempo avessimo voluto.
Le nostre motociclette erano posteggiate fuori, in strada, ma la curiosità dello spettacolo che offrivano ai soldati annoiati di guardia dell’Ambasciata significava anche che loro fossero contenti di proteggerle. Una catena e un lucchetto scoraggiano certi ladri. Un paio di guardie armate di AK47 tengono lontani tutti gli altri.
John dovette continuare il viaggio per la Turchia, ma io rimasi a esplorare la città. Mi sentivo a casa nell’ufficio della Reuters e i giornalisti mi offrirono un incalcolabile aiuto.
Esplorare Bucarest su un’agile motocicletta, condividendo una superficie stradale sconnessa con auto condotte in modo bizzarro che non avrebbero mai passato una revisione, e caracollanti autobus dagli ammortizzatori ormai finiti, fu una vera iniezione di adrenalina.
Di notte, essere rincorso da bande di cani feroci, schivando tombini aperti su strade non illuminate fu un’avventura di alto livello.
Avevo urgente necessità di sostituire le pastiglie dei freni anteriori che si erano assottigliate per il grande uso attraversando i passi sui Carpazi. Radu, un fotoreporter, mi condusse dentro la città, fra blocchi di appartamenti grigi in una piazza che sembrava una zona industriale in scala ridotta. Al centro erano impilate carcasse di autovetture, mentre tutto intorno, in laboratori cavernosi, gli uomini battevano pannelli, smontavano o riparavano macchine in una cacofonia di acuti suoni di risonanza metallica.
Sembrava di essere in un quartiere artigiano di una città balcanica durante l’impero Ottomano. Per solo sei dollari un operaio aveva estratto le pasticche dei freni di un’auto e, riadattate, le aveva risistemate sui miei dischi. Questa operazione funzionò egregiamente fino al mio ritorno in Gran Bretagna, un mese dopo.
Alla fine lasciai la città unitamente con una spedizione fotografica della Reuters, e dopo molte altre avventure tornai a casa profondamente “ammalato” di Romania.
Radu, usò la parola “infettato”. Questo volle dire che per i successivi dieci anni sarei tornato, ogni primavera, per circa un mese, per un eccitante viaggio motociclistico. Non sono stato deluso.
Mark Powell l’abbiamo già incontrato nei «Motoritratti» con Una notte sugli appennini; questa è la seconda puntata di un racconto di viaggio in terra rumena.
Mark Powell
In motocicletta fino a Bucarest
(un viaggio esplorativo per conto di ACE Tours)
Mark Powell non ha mai posseduto una macchina. È passato dalla bicicletta alla moto nel 1982, da allora ne ha possedute trenta, quasi tutte BMW e percorso circa 2 milioni di chilometri attraverso l’Europa.