Mark Powell has never had a car. He moved from bicycles to motorcycles in 1982, since when he has owned 30, nearly all BMWs, and ridden about 2 million km across Europe, mostly in the cause of research as an architectural historian. He believes that travel by motorcycle satisfies not only pragmatic purposes but also the human desire  to control one’s own destiny as much as possible. This  being because riding a bike throws up continual challenges to which the rider must reply with immediate and skilled responses.


Mark Powell non ha mai posseduto una macchina. È passato dalla bicicletta alla moto nel 1982, da allora ne ha possedute trenta, quasi tutte BMW e percorso circa 2 milioni di chilometri attraverso l’Europa, la maggior parte dei quali per il suo lavoro di storico

dell’architettura. Egli crede che il viaggiare in moto soddisfi non solo esigenze pragmatiche, ma anche il desiderio umano di controllare per quanto  possibile il proprio destino; questo perché guidare una moto pone continue sfide alle quali il pilota deve rispondere con immediatezza e abilità.


Una notte sugli appennini


È stato durante un viaggio, in un inverno dei primi anni Novanta. Stava facendo notte e una gelida pioggia dilavava le curve della strada di montagna mentre mi dirigevo a Nord su una BMW R65 con un parabrezza inadeguato per quel clima. Avevo una tenda ma il tempo era così inclemente che alla fine dovetti fermarmi a un albergo dall’aspetto elegante per chiedere il prezzo di una camera. Era decisamente troppo caro e per giunta l’impiegata della reception sembrava non gradire il mio abbigliamento invernale da motociclista: casco aperto con occhiali da aviatore, sciarpa pesante e un lungo cappotto di pelle dal collo alto al quale era attaccata una pelliccia di un animale indefinibile. Lo avevo acquistato in un negozio di eccedenze dell’Esercito Svedese, non era quindi progettato per essere chic ma per essere militarmente funzionale e utilizzabile in condizioni estreme: al di fuori, pelle spessa, quasi anti proiettile, dentro, foderato da una coperta militare per proteggere dal freddo.

Decisi di bivaccare appena trovato il primo sentiero che portava nei boschi, l’avevo fatto spesso. Trovai una strada accidentata che zigzagava su per la montagna, ma ogni spazio invitante, dove avrei potuto piazzare la tenda, sembrava essere occupato da un’automobile con i finestrini appannati. Cominciai a provare un certo risentimento per questo sistema di corteggiamento motorizzato all’italiana. Alla fine, vagando, molto più in alto e più lontano di quanto avrei voluto, trovai una depressione rocciosa appena fuori dal sentiero. Era spazzata da raffiche di pioggia pungente e dal fogliame spinto dal forte vento. Ormai era notte fonda. Passai alcune scomo-dissime ore incastrato fra le rocce.

Quando fece giorno, mi alzai da quel giaciglio pietroso e mi resi conto di essere proprio sul bordo di un dirupo. Se mi fossi mosso nel dormire, quello avrebbe potuto essere il mio ultimo sonno. Non avendo cenato, scesi, tremando per il freddo, giù per i tornanti cercando un posto per fare colazione. Infine trovai un bar, dall’aria rustica, che era aperto da poco, la stanza era vuota ma riscaldata da una stufa. Entrando e richiudendo la porta avevo fatto abbastanza rumore e mi ritrovai faccia a faccia con una ragazzina che era uscita dalla cucina. Prima che avessi potuto scongelare le labbra a sufficienza per ordinare del caffè caldo, lei, strabuzzando gli occhi, lanciò un urlo da far tremare i vetri e sparì dietro la porta. Confuso, mi girai verso lo specchio che faceva pubblicità a una birra e capii. Un essere massiccio, fra uno yeti peloso e un enorme procione, mi stava guardando: il bavero di pelliccia alzato e bagnato faceva da aureola attorno a un viso di colore grigio fango con due macchie bianche dove prima c’erano gli occhiali. La madre della ragazza apparve all’improvviso nella stanza e prima che potesse tirar fuori una qualsiasi arma da sotto il banco, io riuscii, con voce strozzata, da animale sofferente, a ordinare un cappuccino e un cornetto… con marmellata se possibile. Sfilatomi lo svedese carapace che se ne rimase rigido, tanto era spesso e gelato, mi sedetti a un tavolo, cercando di apparire il più innocuo possibile. Riuscii a sembrare tanto modesto da farmi servire tre caffè in fila dalla sospettosa e protettiva madre, mentre la figlia sbirciava dal suo rifugio sicuro.